Dwayne

Liberamente tratto dal racconto di Carla Strippoli


L’APPARENZA INGANNA

Dwayne riuscì a muovere i primi, incerti e traballanti passi solo due ore dopo
essere uscito dalla tomba.
La faccenda gli apparve inizialmente piuttosto buffa, poiché gli sembrava di essersi
quasi dimenticato come si facesse a mettersi in piedi. Del resto, sdraiato sul soffice
giaciglio dell’imbottitura si sentiva comodo e a suo agio, e ci sarebbe rimasto
volentieri per tutta l’eternità; senonché qualcosa gli diceva di alzarsi da lì e, seppure a
malincuore, Dwayne tentò di ubbidire a quell’impulso.
Dopo numerosi quanto infruttuosi tentativi, visto che proprio non gli tornava in
mente come fare, decise di rivolgere la sua attenzione ad altro, per poi riprovare in
seguito.
Guardò dunque verso il basso, in direzione della mano destra, e la trovò davvero
interessante: chissà a cosa serviva quell’aggeggio attaccato al suo braccio, si stupì.
Mosse piano le dita, e per quasi dieci minuti restò come ipnotizzato dai loro deboli
fremiti tremolanti. Poi passò a contemplare la sinistra, e notò che era quasi uguale
all’altra, con le stesse profonde scorticature dovute al gran scavare nel quale si era
inconsapevolmente prodotto fino a poco prima; l’unica differenza tra le due mani
consisteva nella mancanza di un dito, precisamente l’anulare, che si era già fratturato
nell’incidente in cui era morto un mese prima e che quindi non aveva retto al contatto
con il pessimo legno della bara economica. Ora giaceva nella buca come un würstel
andato a male.
Tutto il suo corpo puzzava come un bidone della spazzatura lasciato sotto il sole di
Ferragosto, ma Dwayne non era nemmeno vagamente disgustato di se stesso.
Riconosceva senza dubbio di essere parecchio sporco di terra, ma il suo olfatto non
era più in grado di percepire il tanfo nauseante che emanava. Non poteva sapere di
essere praticamente putrefatto: non si rendeva conto di essere morto.Seduto nel camposanto, Dwayne aveva capito solo per sommi capi cosa gli era
accaduto, ma il motivo per il quale si trovasse alla luce della luna piuttosto che nella
confortevole oscurità della fossa gli era ignoto. Fino a poco meno di un’ora prima era
comodamente steso nella sua bara imbottita di raso viola, e ad un tratto una forza
misteriosa lo aveva costretto a muoversi e a cercare di liberarsi da quella che era stato
un comodo giaciglio ed improvvisamente era invece diventata una stretta prigione.
Nell’attesa di capire in che modo avrebbe potuto alzarsi, iniziò a ricordare
vagamente il suo incidente.
Joey e Paul, i suoi migliori amici, si erano salvati, anche se sarebbero
completamente guariti solo dopo molto tempo e molte cure riabilitative, mentre lui
aveva battuto la testa sul cruscotto, e il risultato era evidente, anche se lui non ne era
consapevole: era morto, stecchito, defunto, schiattato. Poi lo avevano seppellito in
quel cimitero, ma anche questo non lo ricordava. La memoria degli avvenimenti
precedenti si fermava al momento dello schianto. Da allora, e fino al suo strano e
involontario risveglio, il buio più assoluto. Gli pareva solo di rammentare un senso di
pace mai provato prima, ma non poteva esserne certo. L’unica certezza di Dwayne
era il fatto di trovarsi seduto in un cimitero senza sapere perché, e che qualcosa gli
suggeriva di alzarsi e andarsene. Non poteva importargli altro, perché non aveva più
le facoltà per capire di essere in uno stato di decomposizione da fare schifo, di essere
diventato uno zombie come quelli che si vedono barcollare come ubriachi nei films.
Dwayne adorava quel genere di pellicole un po’ splatter: aveva diciassette anni ed
erano state il suo pane quotidiano, prima di morire. Ma, dopo il decesso, le sue
facoltà mentali, peraltro non eccelse nemmeno in vita, si erano irrimediabilmente
deteriorate. Neanche ricordava più cosa fosse, uno zombie. Non avrebbe mai potuto
definirsi un “morto vivente”: era lì, seduto a pensare, pur se con fatica, e a muoversi,
anche se con grande difficoltà, e questo era sufficiente a farlo sentire vivo quanto lo
era prima dell’incidente. Non si poneva nessuna domanda, non aveva dubbi né
interrogativi su cosa gli stesse capitando.Finalmente riuscì a mettersi in piedi. Sentiva che l’unica cosa giusta da fare era
tornare a casa. Là c’era qualcuno ad aspettarlo… ma chi? Con un grosso sforzo, la
parte del suo cervello che non si era sfracellata sul cruscotto gli rimandò l’immagine
di una donna dall’aria stanca, afflitta e spesso in lacrime, una donna che sentiva di
aver amato, anche se in quel momento non provava nulla in particolare. Era una
donna con uno strano nome uguale a quello di milioni di altre donne come lei, che
aveva un significato speciale…
Mmm… Mmo… mma… Mamma! Sì, mamma! esultò Dwayne quando gli
sovvenne… ma cosa voleva dire? Non se lo ricordava, però il suono gli piaceva, così
tentò di dirlo a voce alta. Un lamento agghiacciante uscì dalle sue labbra bluastre che
non sembravano più capaci di articolare un suono comprensibile.
Dwayne non se ne preoccupò: più tardi ci avrebbe riprovato, ma ora quello che
doveva fare era andare dalla signora chiamata mamma e dirle che era tornato per
stare con lei; era sicuro che l’avrebbe resa felice e non avrebbe più pianto. Quello che
Dwayne non ricordava era il motivo per il quale sua madre piangeva così spesso, e
cioè proprio lui: in vita, era stato uno sfaticato, semi-alcolizzato e delinquente in erba,
interessato soprattutto a mettersi nei guai il più spesso possibile e a trascorrere le sue
giornate con altri ragazzi senza scopi nella vita. Due anni prima aveva lasciato la
scuola e non aveva mai pensato ad aiutare sua madre che, vedova e con altri tre figli
più piccoli, doveva lavorare anche di notte per mantenere la famiglia. Ma ora, pur
non ricordando nulla di tutta la sua vita passata, pensare alla mamma gli faceva
provare una sensazione languida alla bocca dello stomaco, una specie di rivolgimento
interno che gli faceva venire l’acquolina in bocca.
Dwayne non aveva riconosciuto in quei sintomi lo stimolo della fame: l’unica
sensazione che l’immagine di sua madre gli procurava in realtà era un forte appetito
di cervello umano. Di viscere. Succulenti intestini da mordere. Questo lo spinse ad
affrettarsi, barcollando incerto sulla gambe malferme: non vedeva l’ora di abbracciare
sua madre e di darle un morso affettuoso sulla testa. Dwayne iniziò suo malgrado a
sbavare, continuando a mettere un piede davanti all’altro con attenzione per noninciampare. Il cancello del cimitero non era lontano, ancora qualche passo e l’avrebbe
raggiunto.
Fu un lieve fruscio a farlo voltare quasi di scatto, per quanto i suoi legamenti
ancora glielo permettevano. La prima cosa che vide fu la canna di un fucile puntata
diritta alla sua testa. Dietro di essa scorse Horace Latt, il vecchio custode del
cimitero. Dwayne tentò debolmente di dirgli qualcosa, pur spaventato e confuso, ma
dalla sua bocca marcita provennero gli stessi lamentosi grugniti senza senso di poco
prima.
Il custode fece un ghigno disgustato. La sua dentiera comprata per corrispondenza
brillò nel buio. Armò il fucile e sparò. Il colpo fu forte e riecheggiò nell’aria
coprendo in parte il tonfo secco della salma di Dwayne che cadeva sul prato. Con
qualche calcio ben assestato, Horace Latt lo spinse fino alla sua fossa, ove lo ributtò.
Con una pala cominciò a riempire nuovamente la buca, borbottando con risentimento.
«L’inquinamento… è colpa di quelle maledette industrie… è già il terzo, questa
settimana!». Poi, fischiettando con ritmo una marcia funebre, tornò a guardare alla
TV il film horror del venerdì notte.